giovedì 10 dicembre 2009

Destra, centro e sinistra: la politica degli yogurt scaduti (di Sergio Talamo)


Restare fermi e non innovare (anche le categorie) è un rischio troppo grande


Se ci capitasse tra le mani uno yogurt scaduto nel 1989, lo getteremmo nel cestino o lo mangeremmo avidamente? Non è difficile rispondere: l'etichetta parla chiaro. Magari vent'anni fa quel prodotto era buono, ma oggi... Con le etichette della politica ci comportiamo diversamente. C'è un'ansia generalizzata di infilare ogni posizione dentro contenitori ampiamente scaduti. Accade un po' in tutti i campi. Prendiamo la saga dei "cattolici in politica". Uomini di partito e commentatori, e persino uomini di chiesa che dovrebbero aver qualcos'altro da fare, si appassionano su centrali temi tipo "serve ancora l'unità dei cattolici", "come si schiera l'elettorato cattolico", "come va il dialogo laici-cattolici", ecc. ecc. Nel frattempo, insensibili a tali altissimi interrogativi, i cattolici fanno di testa loro. Pensano, scelgono, magari votano senza neppure dilaniarsi sulla collocazione dell'Udc.
Le caselle laici-cattolici, insomma, resistono al tempo, e gli opinionisti le trovano irresistibili. Ma il territorio d'elezione degli incasellatori è quello della geografia politica: destra, centro, sinistra. Sono passati più di 30 anni dalle convergenze parallele e gli equilibri avanzati, eppure il gioco funziona ancora. Fioccano quesiti molto coinvolgenti per l'elettore medio. C'è uno spazio al centro considerando che la sinistra è moderata e la destra pure? E se la destra si radicalizza, la sinistra può sfondare al centro? E se il centro si allea con la sinistra cosa farà l'elettore di destra che magari si sente di centro?
Suo malgrado, Gianfranco Fini è un formidabile sollecitatore di questo tipo di dibattiti. Da tempo nei suoi discorsi non compaiono più etichette geografiche ma riferimenti a contenuti reali. Discutibili quanto si vuole, come ogni volta che un politico propone una soluzione ad un problema. Ma si tratta sempre di questioni vere, non di slogan ideologici che nascondono il vuoto. Eppure il quiz più diffuso della politica italiana resta quello di sapere "dove vuole arrivare Fini". Francesco Rutelli, che pure certi schemi li ha superati da un pezzo, lo invita al centro, la sinistra lo incensa come se fosse diventato di sinistra, il Foglio prende in giro la sinistra perché ha adottato un leader "di buon senso ma di destra".
Quanto ancora durerà il gioco dell'oca delle vecchie caselle? È così difficile pensare che un politico rischi le sue storiche rendite di posizione per lanciare nello stagno il sasso di un'idea? È proprio folle un politico che ritenga la destra un residuato del nominalismo novecentesco senza con questo essersi convertito al centro o alla sinistra? Il bello è che, tra tanti berluscones che protestano e tanti adepti del partito di Repubblica che adulano, ci sono alcune menti più lucide che hanno colto nel segno. Prendiamo un uomo non certo tenero con Fini come Giulio Tremonti: «Su immigrazione, interesse nazionale, tipo di patria, globalizzazione, catalogo dei valori e dei principi, non solo tra fondazioni ma dentro il Pdl si può e si deve aprire una discussione, dove vince chi con vince». Tremonti capisce che un moderno partito europeo può anche avere una forma "leggera" ma non può associare a questa leggerezza l'evanescenza e l'improvvisazione dei programmi. Non può risolvere questioni decisive della vita contemporanea con slogan tipo "l'Italia agli italiani", per ciò che riguarda l'immigrazione, o con i diktat per ciò che riguarda i diritti civili, il testamento biologico, la pillola del giorno dopo. Per questa via, un partito che viaggia sul 40 per cento rischia di ridursi a uno stato d'animo, uno specchio del comune sentire del momento, un grande (e provvisorio) comitato di fan del suo leader carismatico. L'innovazione è rischio, ma è più rischioso stare fermi.

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